A margine del webinar che si è tenuto il 10 giugno 2021, tappa del percorso “Non è difficile, è complesso!”, abbiamo posto al prof. Franco Vaio alcune domande le cui risposte ci sono utili per comprendere quali legami abbia la Teoria della Complessità con la quotidianità che tutti noi viviamo.
Enrico Laurenti: Perché interessarsi alla complessità e ai sistemi complessi? È una “disciplina” solo per scienziati o filosofi?
Franco Vaio: La complessità come oggetto di studio non interessa e non deve interessare solo gli addetti ai lavori, scienziati o filosofi che siano. Così come la medicina non interessa solo ai medici, l’arte non interessa solo agli artisti e la scuola non interessa solo agli insegnanti. Tutti siamo fruitori di medicina, arte e istruzione. Allo stesso modo, tutti, per una ragione o per un’altra, anche se non ci occupiamo direttamente di complessità, dobbiamo essere consapevoli che viviamo in un mondo ‘complesso’, che la complessità è non riducibile alla semplicità ed è dappertutto: anche noi stessi siamo complessi e ‘funzioniamo’ come sistemi complessi. Occorre prenderne atto, occorre riconoscere che la complessità è realmente il terreno fertile per sviluppare e far crescere ‘il nuovo’, e che ciò costituisce una vera e propria ricchezza, il suo pregio più rilevante ai nostri occhi. La complessità, non una presunta, facile e ‘povera’ semplicità che spesso le si vorrebbe sostituire. Scienziati e filosofi possono aiutarci a muoverci meglio in un mondo complesso, evidenziando le proprietà della complessità, studiando e illustrando le dinamiche dei sistemi complessi, indicando dove e come gestire la complessità, magari indicando dove e come si possano introdurre localmente semplificazioni e approssimazioni, ma non tentando di trasformare e banalizzare la complessità tout court in una vuota e spenta semplicità che non le può corrispondere. Complessità e semplicità, mi si passi l’espressione, non trovano un substrato comune, sono incommensurabili fra loro.
EL: Sentendo il termine “complessità” verrebbe forse spontaneo pensare al concetto di semplificazione come antidoto ad essa. È sensato? Quali sono i rischi della semplificazione?
FV: La complessità non è riducibile alla semplicità, senza che si perdano alcuni o molti aspetti, caratteristiche ed elementi che le sono fondamentali. Per noi, il tentativo di semplificare è naturale, e a volte addirittura appare essenziale, per molte ragioni, è evidente. Ma ciò possiamo farlo solo introducendo delle approssimazioni nelle ipotesi, nei metodi e nella ‘gerarchia’ degli elementi da prendere in considerazione. Che lo si possa fare o no dipende da quanto siamo disposti a tollerare in termini di approssimazione. L’atmosfera terrestre, ad esempio, è un tipico caso di sistema complesso, la cui dinamica è scarsamente prevedibile, sede di fenomeni emergenti e autorganizzativi continui. Se ci accontentiamo di previsioni del tempo non molto accurate, non molto dettagliate sul territorio e a distanza solo di poche ore, allora possiamo semplificare molto, guardare il cielo e trarre le previsioni a breve, come facciamo tutti, senza dovere ricorrere ai dati forniti dai satelliti, ai concetti e alle formule della termodinamica. Prevedere il tempo a distanza di giorni su un territorio vasto e in modo dettagliato, invece, è ben altra cosa e non permette banali semplificazioni. A maggior ragione, si può dire lo stesso per sistemi ancora più difficili da descrivere dell’atmosfera terrestre, come sono ad esempio i sistemi sociali, dove non esistono leggi ‘fisiche’ cui riferirsi, come sono le leggi della termodinamica per la meteorologia. La semplificazione in sistemi di questo tipo, intesa come il non riconoscimento della loro complessità intrinseca, al fine di gestire tali sistemi, è solo una pericolosa illusione, quando non una vera e propria mistificazione.
EL: Data la frenesia in cui ci troviamo molto spesso ad operare, siamo tutti alla ricerca di risposte rapide, efficaci e pronte all’uso. Soprattutto il mondo del management pullula di “regole, regoline, regolette” che molto spesso vengono spacciate come “soluzioni vincenti”. Secondo lei, esistono soluzioni pre-confezionate ai problemi?
FV: Se è un problema, allora non ci sono soluzioni preconfezionate. Se ci sono soluzioni preconfezionate allora non è, o non è più, un problema. In un modo complesso, dove i sistemi con cui abbiamo a che fare sono sempre, tutti, più o meno ‘complessi’, i problemi che ci troviamo ad affrontare sono sempre nuovi. I sistemi evolvono: quanto più sono complessi tanto più evolvono in modo imprevedibile a priori, e irreversibilmente. La ‘freccia del tempo’, per prendere a prestito un’espressione della termodinamica ottocentesca, formulata in relazione all’entropia classica, ‘spinge’ verso il futuro solamente. All’indietro non funziona, il risultato sarebbe irrealistico. Nell’evoluzione di un sistema complesso non c’è simmetria temporale fra passato e futuro. C’era nella meccanica classica newtoniana (se facessimo girare all’indietro il film del moto dei pianeti nel modello newtoniano, tutto funzionerebbe allo stesso modo, finché non entrano in gioco questioni di caos che Newton non conosceva), ma non c’è nei sistemi complessi: ad esempio nessuna controriforma o controrivoluzione ha mai riportato indietro una società esattamente a come era prima della corrispondente riforma o rivoluzione. In conclusione: i problemi sono sempre nuovi, dalle esperienze del passato possiamo trarre informazioni, conoscenze e, diciamo così, migliorare il nostro ‘fiuto’ nelle decisioni attuali e future. Possiamo sicuramente, e questo avviene costantemente in tutti noi, sviluppare dall’esperienza, in mancanza d’altro, utili automatismi mentali per decisioni rapide o immediate, quasi istintive; possiamo derivare le cosiddette ‘regole euristiche’, regole ‘alla buona’, che funzionano ‘abbastanza bene’, spesso, prive di fondamento teorico, ma utili in pratica; ma non ricaviamo regole fisse, immutabili, dirigistiche, buone per tutti i problemi. I problemi non sono mai uguali. Piuttosto, il sistema complesso in evoluzione va seguito attentamente e, eventualmente, secondo i casi, assistito con ‘spinte gentili’: i ‘nudge’ di cui hanno scritto Richard Thaler (premio Nobel per l’economia nel 2017) e Cass Sunstein, non con regole fisse e dirigistiche.
EL: Abbiamo sentito che la complessità determina una difficoltà a conoscere un sistema e a prevederne le evoluzioni nel tempo. Dobbiamo quindi pensare che la complessità sia un elemento per forza negativo?
FV: Prima di tutto, la complessità è un fatto di cui dobbiamo prendere atto, essere consapevoli, e aggiungerei, che dobbiamo ‘studiare’ con i giusti approcci, metodi e mezzi, proprio al fine di sviluppare la nostra conoscenza e la nostra comprensione dei fenomeni, e migliorare le decisioni, a vantaggio non egoistico individuale, ma di tutti noi. In sé non è né positiva né negativa. Se mai, si potrebbe considerare che in un ipotetico – inesistente! – mondo ‘non complesso’, tutto sarebbe prevedibile, tutto sarebbe comprensibile con la logica razionale più semplice (ci sono diverse logiche e differenti modi di interpretare la razionalità, ricordiamolo!), tutto sarebbe interpretabile in chiave riduzionistica, tutti prenderemmo le stesse decisioni razionali, avremmo gli stessi gusti e vorremmo fare la stessa cosa. In questo mondo, di fatto, nessuno farebbe nulla: se tutti vogliono comprare, allora non c’è nessuno che vuole vendere! Se tutti gli imprenditori prendessero le stesse decisioni allora produrrebbero la stessa cosa nello stesso modo. Insomma non ci sarebbe quella varietà nelle decisioni (in realtà, non sto parlando solo degli imprenditori, mi riferisco a chiunque!), che è essenziale in qualsiasi società umana per impedire che questa si cristallizzi nell’uniformità e nella staticità, senza varietà e senza evoluzione. La complessità del mondo è il terreno fertile che alimenta e sostiene l’evoluzione e l’innovazione.
EL: Torniamo sul concetto di previsione. In molti campi, a partire dalla meteorologia, passando per la finanza e per la gestione aziendale, esso è, per ovvi motivi, un tema molto caro. Pensando al concetto di complessità, dobbiamo quindi definitivamente abbandonare l’idea di poter effettuare previsioni?
FV: Previsioni ‘esatte’, senza margine di errore, e a qualsiasi distanza non siamo in grado di effettuarle, per nessun sistema complesso, fisico, sociale o di qualsiasi natura esso sia, come discusso alla domanda precedente. Possiamo anticipare qualcosa, con qualche grado di approssimazione e margine di incertezza. Su queste anticipazioni possiamo basarci per prendere decisioni in modo soggettivo. D’altronde, tutto il ramo della matematica che si occupa dello studio della probabilità è stato creato e si è enormemente sviluppato dalla rivoluzione scientifica in avanti, proprio per aiutarci a ‘prevedere’ e a dare maggiore o minore forza alle nostre previsioni. Pensiamo poi all’uso della probabilità in statistica inferenziale e in econometria. Eppure, non posso che dichiararmi d’accordo con Bruno de Finetti, uno dei più importanti probabilisti del Ventesimo secolo, che, in apertura del suo trattato “Teoria della Probabilità”, scrive la celebre e icastica frase “La probabilità non esiste”. È un nostro espediente mentale, insomma, una misura della fiducia che noi, in possesso di determinate informazioni, attribuiamo al realizzarsi di un evento in qualche modo ‘previsto’. Una fiducia che, in un mondo inevitabilmente e fondamentalmente complesso, diventa sempre più debole quanto più in là guardiamo, nelle previsioni del tempo come nei mercati finanziari, come dappertutto.
EL: C’è una sorta di classifica dei sistemi complessi? In altre parole, la complessità è una caratteristica misurabile?
FV: Sicuramente ci sono livelli diversi di complessità dei sistemi, questo è nell’esperienza di chiunque di noi; tutti facciamo o tentiamo di fare confronti qualitativi fra ‘più complesso’ e ‘meno complesso’. Ma in termini quantitativi no, se non in alcuni ambiti circoscritti. Al momento non è stata definita in alcun modo un’unità di misura generale per la ‘complessità’, come sono, nel Sistema Internazionale, il metro per la lunghezza, il secondo per il tempo, il chilogrammo per la massa ecc. Né, tanto meno, esistono il campione di riferimento e il metodo di misura della complessità. Nelle scienze, ‘grandezza’ è tutto ciò che si misura direttamente o indirettamente (cioè con il calcolo a partire da misure dirette di altre grandezze): al momento, la ‘complessità’ non è una grandezza formalmente definita, né fondamentale né derivata (come si usa classificare nel Sistema Internazionale). Ricordiamo, peraltro, che una definizione di ‘metro’ esiste solo da poco più di due secoli, ed è cambiata più volte da quando esiste, e lo stesso si può dire del ‘secondo’; e ricordiamo anche che i concetti di forza, potenza ed energia, oggi di uso quotidiano, hanno cominciato a distinguersi fra loro anch’essi poco più di due secoli fa, con la rivoluzione industriale. È ragionevole pensare, allora, che anche per la grandezza ‘complessità di un sistema’ si arriverà, prima o poi, a una definizione formale applicabile a tutti i contesti scientifici, che permetta la quantificazione del grado di complessità, e non solo il confronto fra ‘più complesso’ e ‘meno complesso’. L’alternativa è che il concetto di ‘complessità’, oggi poco più che qualitativo, finisca per essere abbandonato, messo da parte dall’evoluzione del pensiero scientifico, più o meno come è accaduto in economia per il concetto qualitativo di ‘utilità’, largamente utilizzato a fondamento teorico dagli economisti per oltre un secolo, da Bentham a Pareto e ancora oltre, ma variamente inteso e mai definito in modo formale per le misure, per poi essere in qualche modo lasciato in un angolo dalla scienza economica successiva, proprio perché mai ben definito.
EL: In un approccio complesso, vale più l’istinto o la pianificazione strategica?
FV: Entrambi devono esserci. Non è sensato prescindere dal rilevamento e raccolta dei dati, e da una loro approfondita e razionale analisi, condotta con mezzi tecnici adeguati all’esame della grande massa di dati oggi disponibili in tutti i campi. La pianificazione non può prescindere da un’adeguata conoscenza quantitativa dell’ambiente in cui l’impresa/istituzione si muove e con cui interagisce. I dati e i numeri sono una base essenziale per le scelte dell’imprenditore e del decisore Senza dati e senza numeri non sappiamo di cosa parliamo. Ma non bastano da soli, perché non dicono tutto. Dicono molto del passato e del presente, ma poco del futuro. E il futuro dei sistemi complessi è cosa ardua da anticipare. Il mondo, tutto il mondo è complesso. In questo senso, i numeri vanno integrati con le esperienze, le opinioni, le impressioni e sensazioni di chi decide e pianifica, che sono anch’esse frutto del passato; vanno integrati con la propensione al rischio del decisore, che è il suo modo di guardare al futuro, con il suo ‘fiuto’ e con il complesso di emozioni istintive che guidano il comportamento umano, gli animal spirits che Keynes identificava all’origine del comportamento dell’imprenditore, pianificatore e decisore. Propensione al rischio e istinto: quel ‘qualcosa di soggettivo’ che in parte è anch’esso frutto dell’esperienza, ma che in parte è innato, scolpito nei nostri processi mentali, e che ci rende ciascuno diverso dagli altri fin dalla nascita. Senza numeri conosciamo solo in modo superficiale il sistema complesso in cui ci muoviamo. Senza istinto non possiamo neppure tentare di interpretarlo