A margine del webinar che si è tenuto il 12 Luglio 2021, tappa del percorso “Non è difficile, è complesso!”, abbiamo posto ai Marlene Kuntz alcune domande le cui risposte ci sono utili per comprendere il parallelismo tra l’improvvisazione in musica e la gestione di scenari decisionali complessi.
Enrico Laurenti: Quando si parla di improvvisazione in ambito musicale, il primo pensiero va sicuramente al jazz, ma si può affermare che l’improvvisazione sia parte integrante dell’esperienza musicale di ogni genere. Anche la classica, che nell’immaginario comune è un ambiente estremamente rigido e rigoroso, non si esime da questo. Anche in ambito rock si ricorre spesso a situazioni di improvvisazione, pratica cui ricorrete molto spesso. Spieghiamo brevemente cosa significa “improvvisare”, con riferimento soprattutto alla vostra esperienza. Che cosa vi consente di fare o di esprimere l’improvvisazione che non trovate nel brano composto?
Riccardo Tesio: È necessario innanzitutto precisare che cosa intendiamo per improvvisazione in musica. Ci sono tipi diversi di improvvisazione, va quindi distinto il caso del musicista singolo dal caso del gruppo, che è quello che ci interessa maggiormente in questo contesto. Molto spesso, quando c’è un gruppo che suona, si verifica, ad esempio, quello che si chiama “assolo”, cioè su una base prestabilita, ad un certo punto uno dei musicisti si prende il suo spazio e improvvisa, ma su un “tappeto” già preparato dagli altri musicisti e già conosciuto a priori. Questo è il tipo di improvvisazione che forse è il più diffuso, ma quello che ci interessa meno in questo contesto. Quello che facciamo soprattutto noi Marlene Kuntz è l’improvvisazione in quanto gruppo, in cui, in un certo senso, tutti improvvisano contemporaneamente. Se fosse un’attività totalmente casuale si verificherebbe una gran confusione, quindi in realtà il tutto avviene a partire da una linea guida, da un obiettivo comune, da schemi, anche molto astratti. Di volta in volta possono essere diversi, possono essere una tonalità musicale oppure un’ispirazione che ci viene da un’immagine. Ad esempio, noi abbiamo realizzato parecchie sonorizzazioni di film muti, attraverso il meccanismo dell’improvvisazione, e in quei casi erano le immagini a fare da guida a noi musicisti.
EL: Giusta precisazione Riccardo, grazie. Perché voi Marlene Kuntz ricorrete all’improvvisazione? È una pratica che aggiunge qualcosa alla vostra espressività, la utilizzate per qualche scopo particolare?
RT: Sì, anche se noi generalmente eseguiamo i nostri brani con l’approccio tradizionale. Non siamo partiti dall’inizio con questa idea dell’improvvisazione, è una pratica emersa dopo 5-6 anni di musica insieme, ed è nata principalmente come metodo compositivo. Per scrivere musica ci si trovava in sala prove con l’idea di provare a fare qualcosa di nuovo. Il meccanismo era molto semplice, uno dei musicisti partiva con una sua idea, in quel momento lì in un certo senso era il leader, e gli altri ascoltavano e si agganciavano secondo la suggestione iniziale e piano piano la musica cresceva. Registravamo queste sessioni, le riascoltavamo, andando a individuare le idee più interessanti, per provare poi a riprodurle in maniera più organizzata. Si trattava più che altro di una questione di aver passato tante ore, tanti giorni, tanti mesi e qualche anno a suonare insieme, quindi c’era un tipo di feeling per cui questa cosa funzionava.
Cristiano Godano: Dal mio punto di vista, non saprei dire se è venuta prima l’esigenza di improvvisare o quella di trovare un metodo compositivo alternativo. Si tratta di elementi che si compenetrano sullo stesso piano cronologico, nel senso che, iniziando a suonare nel modo raccontato da Riccardo, si può immaginare che si arrivi in sala prove in maniera consueta dopo mesi in cui lo si fa più o meno quotidianamente, immaginando di dover affrontare un nuovo processo compositivo-creativo. Il che non è chiaramente una cosa ordinaria. Per una band, la necessità di mettersi lì a creare pezzi nuovi in un certo senso lo diventa, però l’idea in sé di comporre un brano, ovviamente, come intuibile, presenta una sua complessità. Siccome una band un poco per volta si ritrova a contare le svariate ore passate insieme può essere che a un certo punto si è tutti in sala prove e uno dei membri, anziché un prestabilito “start”, inizi a suonare per conto suo semplicemente perché gli va. L’alchimia del gruppo fa sì che, come giustamente suggeriva Riccardo, gli altri si inseriscano, questa cosa si sedimenta e diventa una specie di attitudine che la band acquisisce, che fa sì che le prove si trasformino spesso in quella cosa che tecnicamente chiamiamo “jam session”, cioè momenti in cui tutti insieme si produce un magma sonoro. Questa è un’attitudine che abbiamo cominciato ad accogliere in noi capendo che faceva anche molto parte di un certo tipo di mondo musicale che frequentavamo. Le nostre fascinazioni di riferimento, le mie in particolare, contemplavano questo approccio improvvisativo che si basa anche, secondo me, una sorta di “spudoratezza”. Quando noi abbiamo cominciato a “buttare” note inserendoci nella suonata che aveva iniziato a fare l’altro, lo abbiamo fatto in modo spudorato, cioè senza preoccuparci troppo di cosa avrebbero pensato gli altri di quello che stavamo facendo in quel momento, cosa che non è un dettaglio irrilevante. È molto connesso con la compenetrazione che c’è tra di noi. E questo è una facility che, a posteriori, permette anche di ragionare sulla faccenda. Cioè il fatto di essere così compenetrati fra di noi, uniti e complici, permetteva di scoprire un potenziale che fa sì che si possa trovare in questo ambito delle regole a posteriori che aiutano agli apprendimenti, così come uno dei concetti che sono stati espressi nell’introduzione.
EL: Volevo infatti cogliere l’occasione per chiedervi se il paradigma “try&learn” da me precedentemente illustrato possa essere rappresentativo del processo creativo che si sviluppa all’interno di un momento improvvisativo, che sia in sala prove o sul palco. Già nelle vostre prime risposte entrambi ci avete dato una serie di elementi piuttosto forti di riflessione, non ultimo il fatto che ci è voluto un qualche periodo di rodaggio per sviluppare una sorta di sintonia e di linguaggio comune, anche perché, tra l’altro, siete persone diverse, avete riferimenti musicali e gusti anche differenti, cosa che probabilmente ha rappresentato una sorta di ricchezza.
CG: Assolutamente. C’è di mezzo anche una faccenda di intelligenza. Quando ci siamo conosciuti, io e Riccardo abbiamo convissuto in maniera dialetticamente vivace e contrapposta le prime fasi della sala prove. Io sono arrivato come elemento esterno, Riccardo e Luca (il batterista), insieme a un altro bassista, stavano suonando insieme da parecchio tempo, mancava loro un cantante, inoltre non erano in grado di comporre canzoni. Hanno un certo punto intercettato me, mi avevano conosciuto come cantante di un altro gruppo della zona di Cuneo e quando io sono arrivato ho portato con me un bagaglio esperienziale e di fascinazioni radicalmente all’opposto nell’ambito dello stesso genere rock chiaramente, si sta parlando di rock qua, un rock dal piglio intellettuale più che sensuale e mainstream. Al di là di questo trait d’union, le diramazioni erano nette. Io avevo una visione molto, se si vuole, anche “naïf” della faccenda, sicuramente ero abbastanza lontano dall’approccio tecnico e rigoroso della musica, mentre invece Riccardo proveniva molto di più da quell’ambito, cioè lui era il tipico esemplare di chitarrista che si studia le scale a memoria o comunque che cerca di eseguirle nel modo più preciso possibile, io invece facevo riferimento a un approccio e a una visione culturale ben precisa, che tendeva a scardinare tutto ciò. C’è stata quindi una sorta di magia e di intelligenza nel provare a superare le reciproche diffidenze iniziali, che avrebbero potuto essere l’elemento dirimente della serie, non funzioniamo insieme. Per fortuna, a ragion veduta, si può dire siamo riusciti a sopportarci per un tempo sufficientemente breve, o sufficientemente lungo, tale da consentirci di mettere insieme queste esperienze e quindi, sì, è tutto molto appropriato quello che si sta dicendo, perché si parla di opportunità che nascono da confronti.
EL:E quindi da un momento iniziale che poteva essere di scontro in realtà siete riusciti a incanalare le energie nel modo corretto. Anche solo il fatto di una carriera che dura da trent’anni, 30 anni insieme, rappresenta più un’eccezione che la regola nel mondo delle band. Anche questo è sintomatico di qualcosa che si è sviluppato nel modo giusto.
CG: Sì, stare insieme per molto tempo così è veramente miracoloso, non è facile.
EL:Più tardi arriveremo a parlare anche del tema dei ruoli, ma volevo prima sottolineare ancora qualche altra parola che è emersa da queste vostre prime risposte. Interessante il concetto di abbinare il tentativo di sviluppare nuove idee al termine che ha usato Cristiano, un termine molto forte, ma significativo, che è quello della “spudoratezza”. Chissà in quante aziende accadono episodi di conflitto tra persone, all’interno di situazioni in cui è importante generare nuove idee. Se è vero che la creatività è una caratteristica che viene generalmente associata al mondo dell’arte, nella realtà si tratta di una capacità legata più genericamente alla produzione di idee. Devo quindi mettere in gioco la creatività anche se devo sviluppare un nuovo prodotto o un nuovo servizio. Stiamo quindi parlando di due ambiti diversi, quello artistico e quello aziendale, ma che probabilmente qualche punto di tangenza ce l’hanno. Il fatto di dover usare la spudoratezza è significativo, bisogna avere coraggio. Ci riallacceremo a questo concetto con una domanda successiva.
Miriam Munerato: Il coltivare la competenza provocatoria è uno degli strumenti che vengono suggeriti per attivare la leadership adeguata a poter governare la complessità. Come anche dare delle visioni che possono diventare poi degli obiettivi comuni, ma che siano delle visioni provocatorie, fortemente ambiziose e che stimolino le persone ad uscire dai loro schemi e ad uscire dalla routine. Una cosa che avete sottolineato a proposito di creatività è anche il fatto che guardate al contesto. Non si sta troppo a pianificare, chi parte in quel momento assume il ruolo di leader e gli altri adottano un atteggiamento di “benevolenza”. Quello che spesso manca nell’ambiente aziendale è quello di porsi in modo empatico all’ascolto. C’è molta competitività e i manager devono lavorare per far sì che le persone abbiano un ascolto attivo e possano porsi in modo empatico sostenendo quello che il leader del momento, cioè colui che prende l’iniziativa e inizia a sviluppare la sua idea, intende proporre e portare avanti. Sicuramente abbiamo toccato due concetti molto interessanti, cioè incoraggiare l’elaborazione dei dati nel mentre e non proporsi di arrivare a un obiettivo, cioè si prova e si ritorna allo schema del “try & learn” precedentemente introdotto. Questo sta anche alla base della creatività, che poi è requisito essenziale dei meccanisi di innovazione.
CG: Scusa, mi intrometto, è interessante, hai usato questa parola della competizione. In effetti, se penso all’esperienza dell’improvvisazione in musica, la competizione è completamente assente tra di noi in quel momento. È proprio una faccenda di empatia e di desiderio di collaborare e di contribuire alla sinergia e non in termini competitivi.
RT: Un’altra cosa che mi hai fatto venire in mente, è il fatto che l’improvvisazione in ambito musicale è proprio la pratica che per eccellenza prevede il saper ascoltare gli altri. Mentre quando si esegue una partitura, o un brano preconfezionato, l’unico obiettivo, che non è un piccolo obiettivo, è quello di eseguire la propria parte nel migliore modo possibile, parte che però è stata completamente stabilita dall’inizio alla fine, quando invece si improvvisa è inevitabile che uno debba ascoltare cosa stanno facendo gli altri per riuscire ad inserirsi e per dare il proprio contributo oppure per decidere che il proprio contributo è quello di fare un passo indietro e di non suonare.
(M) L’aver scelto la metafora dell’improvvisazione musicale, aiuta a comprendere come l’ambiente che si genera, e che voi leader generate nel vostro team, è fondamentale, perché nella musica c’è un atteggiamento favorevole, che è quel “senso di creare”, è la volontà che spinge i componenti della band ad ascoltarsi e ad accompagnarsi l’un l’altro. Quindi, anche in azienda, si deve generare un atteggiamento favorevole che faciliti ciascuno a condividere le proprie idee e, se necessario, a mettere in discussione le proprie convinzioni. Il messaggio che voglio dare ai manager è proprio questo: quando Steve Jobs ha ideato la nuova sede di Apple ha spinto fortemente con gli architetti affinché si generasse una struttura con una sorta di piazza centrale, un “mercato” dove tutti gli uffici si affacciassero, in modo che le persone potessero incontrarsi e scambiare parole. Funziona così, la gente si incontra, scambia delle parole, da una parola scaturisce una suggestione, un’idea e si creano le condizioni affinché nasca l’innovazione.
Quello che si stimola con la leadership della complessità è il fatto di cogliere tutte quelle che possono essere le suggestioni dell’ambiente che vivete e che condividete e questo genera la cosiddetta ridondanza cognitiva, che non deve essere all’interno di un’unica persona, ma deve essere raccolta dalle competenze e dalle conoscenze del gruppo in cui lavoriamo.
EL: Raccontandoci dell’eterogeneità dei membri del vostro gruppo ci avete già, di fatto, sottolineato quanto essa rappresenti di per sé un valore potenziale. Le differenze certamente arricchiscono, si deve avere però l’intelligenza di incanalarle in una direzione propositiva e verso un obiettivo comune. Mi riaggancio brevemente a quanto detto poco fa solo per farvi un’ulteriore domanda. Cristiano ha dichiarato un approccio alla composizione o allo strumento un po’ più “di pancia”, più umorale, più immediato, mentre Riccardo è più riflessivo e analitico e cerca prima di comprendere maggiormente le cose. Già qui siamo in presenza di due mondi contrapposti, ma qual è quindi la preparazione, quali sono le competenze che deve avere un musicista per improvvisare? È necessario avere perizia tecnica, è necessario avere la spudoratezza di cui parlavamo e la capacità di osare e di spingersi oltre i limiti per cercare la soluzione innovativa o particolarmente accattivante? Qual è la cosa migliore o è forse meglio un equilibrio tra tutto ciò?
RT: Senza dubbio la preparazione tecnica è sempre utile, non è mai un ostacolo. Quello che forse in ambito musicale è la cosa più importante per l’improvvisazione è però avere un’attitudine creativa. Chi studia al Conservatorio è spesso abituato ad eseguire una parte scritta da altri nel miglior modo possibile, attività che sviluppa le capacità di lettura, di interpretazione e la tecnica, un po’ meno l’immaginazione, cioè il fatto di avere un’idea musicale propria e cercare di tradurla in pratica. Direi quindi che, in ambito improvvisativo, tra le caratteristiche importanti la prima è sicuramente saper ascoltare. La musica è una sequenza di eventi sonori nel tempo, tutto quello che noi ascoltiamo e che percepiamo come musica, ogni suono, assume un particolare valore riferito a quello che è successo appena prima. La frase musicale ha un senso perché c’è questa sequenza, come anche le parole e le frasi che stiamo pronunciando, sono una sequenza di lettere che assumono un significato perché sono messe in un determinato ordine. Nel momento in cui sto improvvisando sento l’altro musicista che sta dicendo qualcosa, sta eseguendo una frase, e io cerco di agganciarmi, perché in base a quello che lui sta dicendo prevedo e immagino quello che lui sta cercando di dire e mi inserisco e magari lo arricchisco oppure gli vado contro e “bisticcio”. Si sviluppa quindi un dialogo proprio legato a questa sequenza di suoni che si susseguono nel tempo e io come musicista sono in grado di prevedere, anche perché sto ascoltando quello che l’altro sta dicendo. C’è un linguaggio comune tra di noi e c’è la capacità di immaginare cosa andare a suonare e, infine, la capacità tecnica interviene, perché quello che ho immaginato lo riesco a tradurre in movimenti delle mani sullo strumento. C’è quindi un collegamento molto rapido tra orecchio, immaginazione sonora e traduzione in movimento delle dita sullo strumento per far sentire quello che mi sono immaginato nella testa. Sono quindi questi i tre ingredienti fondamentali per poter improvvisare. Il fatto di aver suonato tanto insieme, poi, aiuta nello sviluppare un linguaggio comune.
CG: Tu prima mi hai identificato come “colui che va di pancia”, però è corretto precisare che in realtà noi stiamo parlando dell’improvvisazione, che è solamente uno degli aspetti del fare musica. Perché in realtà nessun autore in ambito artistico ottiene qualcosa solo con l’improvvisazione. Adesso ne stiamo parlando e la stiamo sviscerando, notiamo che c’è una parte di intelletto, notiamo che c’è la pancia, però per ottenere poi una forma che sarà quella finale dell’esito artistico, in realtà, serve molto raziocinio. Tu hai infatti chiuso la domanda parlando di equilibrio. C’è un equilibrio ben importante, la musica che ascoltiamo, quella che ascoltiamo ovunque, in radio o sui dischi che ci scegliamo, sulle piattaforme, credo che sia improvvisata nello 0,5% dei casi, in realtà è tutto molto pensato. Il processo creativo è ben lontano dalla improvvisazione, che è un modo di esprimere la musica, è affascinante ed è soprattutto, nella fattispecie di ciò che parliamo noi, un ottimo espediente per trasmettere emozioni di un certo tipo, quando sei dal vivo, al pubblico e anche emozioni di natura diversa rispetto a quello che il pubblico è mediamente abituato. E poi, come già abbiamo detto, è un ottimo espediente per crearsi un nuovo metodo compositivo. Eseguendo un sacco di improvvisazioni nel corso del tempo, registrandole tutte, noi scoprimmo tanto tempo fa che lì dentro potevamo trovare quelle che poi noi chiamavamo le “spore” (noi facemmo anche questo disco di improvvisazioni che si chiamava “Spore”), che erano cellule germinative e potenziali. Queste improvvisazioni, che riascoltate erano molto imperfette, erano però piene di potenziali nuclei ispiratori dai quali magari partire per lo sviluppo di una canzone, la quale però era poi nella sua forma finale molto pensata. È necessario fare questa precisazione per proseguire il discorso.
EL:Ti ringrazio della precisazione e, ovviamente, mi riferivo al frangente dell’improvvisazione, che è solo una parte della vostra attività musicale. Diverso è, come hai ben spiegato tu, tutto il processo per approdare a un prodotto finito come può essere un brano o un album.
CG: Certo certo, è che vale la pena di puntualizzare il fatto che il processo creativo è ben lontano dall’essere semplice e improvvisato. È fatto di pensamenti, ripensamenti, cancellature, dormirci sopra, svegliarsi il mattino dopo e dire no, quella parola non va bene, devo cambiarla, devo metterne un’altra, quindi è un mix di milioni di componenti che contemplano proprio il farraginoso processo di avvicinamento all’esito finale.
L’improvvisazione è un settore molto interessante che permette, continuando il parallelo che noi stiamo cercando di instaurare fra musica e realtà aziendale, di sviluppare strumenti per ottenere dei risultati migliori. La faccenda, ad esempio, dell’empatia e dell’assenza di competizione di cui si parlava prima, è una delle cose molto importanti che aiutano alla sinergia finale.
MM: “Nessuno ottiene niente solo con l’improvvisazione”, è una frase fondamentale e riporta ad alcune domande che ci eravamo posti all’inizio dell’elaborazione del nostro percorso formativo. Tutte le competenze tecniche che abbiamo acquisito negli anni, tutte le nostre metodologie, le capacità e abilità le prendiamo e le buttiamo? Assolutamente no! Costituiscono la base, secondo quanto ci hanno detto sia Riccardo che Cristiano. È importante avere competenze tecniche di base, a supporto di quello che nasce nell’improvvisazione, che deve essere riordinato e rispecchiare gli obiettivi che vogliamo raggiungere.
Una cosa che mi è venuta in mente adesso, in questo rimpallo di suggestioni reciproche, a proposito di quanto appena detto da Cristiano è, andando a riascoltare tutte queste nostre jam session, abbiamo riscoperto che un brano che al momento abbiamo accantonato poteva diventare qualcosa di più.
Quando vi ho presentato il pensiero laterale e vi ho dato alcuni strumenti per poterlo agevolare e applicare e per far sì che venga stimolato all’interno del team, vi avevo anche detto che nei brainstorming, i risultati parziali non devono essere buttati. Sentiamo tutti cosa hanno da dire, annotiamo tutto, ma non buttiamo ciò che non viene scelto, perché potrebbe essere che in quel preciso momento non ci serva, ma magari potrebbe tornare utile in un secondo momento. Pensiamo ad esempio alla notissima storia del Post-it della 3M, nato da un errore.
Nessuno, quindi, ottiene niente con la sola improvvisazione, ma è importante attivarla. Mentre i Marlene Kuntz appartengono ad un ambiente artistico, dove di base hanno predisposizione alla creatività e alla ricerca del nuovo, noi ci chiudiamo spesso dentro le nostre competenze tecniche e da ciò nascono spesso problemi di comunicazione e di condivisione, con il risultato che in azienda spesso si lavora per silos.
Ritorniamo all’ambito musicale, abbiamo individuato tre caratteristiche fondamentali per l’improvvisazione: saper ascoltare, saper immaginare, saper mettere in campo le necessarie capacità tecniche. Anche qui abbiamo toccato un altro di quelli che sono gli strumenti per incoraggiare una leadership in grado di poter agire in sistemi complessi, che è quello di preparare la strada a ciò che rompe la routine quotidiana, cioè noi dobbiamo stimolare e mettere in discussione anche quello che è certo!
EL: È emerso, da una riflessione che faceva Riccardo poco fa, che nel contesto improvvisativo si instaura un processo del tipo: uno inizia a suonare qualcosa, gli altri ascoltano e gli vanno dietro, poi qualcun altro prende una nuova iniziativa e così via. Pensando a questo tipo di dinamica all’interno di un contesto di improvvisazione, come sono distribuiti i ruoli? C’è uno di voi che sempre fa da guida o vi alternate?
RT: Sì, c’è sicuramente un meccanismo di alternanza. In alcune occasioni abbiamo sviluppato delle improvvisazioni basate sulle immagini di film, dei quali abbiamo eseguito la sonorizzazione, e in quel caso le scene ci facevano da guida. In quel contesto accade che ci si prepara preventivamente, sulla base di indicazioni generiche, e stabiliamo che in una determinata scena suoniamo in un certo modo.
Quando invece siamo solo noi musicisti senza nessuna suggestione esterna da seguire, allora il meccanismo è quello di uno che parte, gli altri che lo seguono e poi può accadere di tutto. Uno può smettere di suonare, oppure gli viene un’altra idea e cerca di imporla, magari alzando il volume, oppure ci sono degli imprevisti del tipo, uno tenta il cambio di rotta, ma nessuno lo segue, oppure, ancora, smette perché gli sembra di non avere niente di interessante da suonare e succede magari che anche gli altri smettono, cose del genere. Di base è però sempre tutto fondato sull’ascoltarsi e molto viene deciso al momento.
CG: L’ambito improvvisativo mi sembra essere, almeno per quel che riguarda la storia dei Marlene Kuntz, l’unico momento in cui non emerge una leadership unitaria. Io sono generalmente visto come il leader dei MK, perché sono il cantante e perché sono quello che risponde principalmente alle interviste. Poi, nelle dinamiche di gruppo, sono stato indicato come leader perché, all’inizio della carriera dei MK, quando ancora non eravamo nessuno e nessun disco era stato fatto, io ero ero colui che decideva le prove e si arrabbiava tantissimo se qualcuno mancava, insomma sono stato colui che ha instaurato la disciplina all’interno del gruppo. Credo che si possa dire che è grazie a me se la band è riuscita a resistere per sei anni in cantina, senza farsi notare, fino a quando poi finalmente il primo disco è arrivato. Ecco, se durante questi 5-6 anni i MK sono riusciti a non perdere la pazienza, su questo credo che Riccardo non possa smentirmi, è stato grazie alla mia disciplina e al desiderio di farcela a tutti i costi. Questo ha fatto sì che io sia sempre stato visto come il leader dei MK. In realtà, l’ambito improvvisativo è però proprio il caso dell’eccezione che conferma la regola. Non c’è più leadership in quel momento, ma prevalgono la capacità e l’intelligenza di pensare alla opportunità della compenetrazione. Quindi a seconda di chi parte per primo, lo si segue, potrebbe anche partire Luca, il batterista, con un ritmo. A volte è stato invitato lui a partire, tant’è che i cambi all’interno di un’improvvisazione che si sta facendo, quando a un certo punto sono cinque minuti che si sta suonando in un certo modo, non necessariamente sono melodici o armonici, ma potrebbero essere semplicemente dei cambi di ritmo. A un certo punto c’è una sorta di piccola stasi, creata anche un po’ ad arte, in cui tutti ci rendiamo conto che è finita una prima cellula importante, vitale, di improvvisazione, ma ancora non abbiamo voglia di finire questa esperienza, allora che succede? Può succedere che dinamicamente si va un po’ giù, si plana, quel planare lì ci fa capire che non è detto che l’improvvisazione sia finita. Nel momento in cui si è planati, c’è questa sorta di stasi che ha un suo fascino di per sé, anch’essa è bella da ascoltare da fuori, non c’è il pieno di tutti i musicisti, ma c’è un’onda lunga che si riverbera, c’è un eco o c’è un feedback, c’è un magma sonoro che è rimasto lì a stazionare come se fosse stagnante e lì, in una situazione di questo tipo, Luca, ad esempio, può essere decisivo perché di colpo introduce un elemento nuovo. Quell’elemento nuovo lì, se captato dall’attenzione all’ascolto di noi che siamo esperti, siamo esperti fra di noi soprattutto, fa sì che si riparta. Ecco, quindi, che in quel momento lì, il leader non è più chi ha fatto partire l’improvvisazione ma è diventato Luca, che è colui che in quel momento ha dato un cambio importante. C’è stata quindi l’intelligenza di capire che quell’improvvisazione non era finita, e questo è molto importante.
EL: Quello che state descrivendo ci sta facendo ripensare al video dei metronomi che a un certo punto si sincronizzano. Siete un gruppo di persone che stanno suonando insieme, a un certo punto emerge un “qualcosa” che vi mette in sintonia l’uno con l’altro. E sempre questo “qualcosa” fa sì che ognuno di voi carpisca le variazioni, anche minime, suggerite dall’altro o fa sì che qualcuno si lanci in una variazione più ampia e che dia impulso ad una nuova direzione, seguita poi dagli altri membri del gruppo.
CG: Sì, quell’esperimento che tu hai fatto vedere all’inizio di questo appuntamento, lo avevo visto anch’io poco prima, e ne ho letto un po’ per capire qual è il meccanismo fisico che presiede a questo sincrono, perché in effetti è affascinante. Se uno non va a chiedersi perché, rimane lì, sembra che sia una magia, mentre ovviamente c’è sempre una spiegazione fisica dietro a fenomeni di questo genere. In pratica, come hai detto giustamente tu, quei metronomi poggiano su una piattaforma di natura elastica che assorbe i vari input che ciascun singolo metronomo dà con il suo movimento e in qualche modo, assorbendoli, li trasmuta e li compenetra e li rimanda al sistema dei metronomi che stanno andando e li porta all’unisono. E quindi se si dovesse tracciare un parallelo con la nostra esperienza, sarebbe necessario andare a capire cos’è per noi quella piattaforma di elasticità che fa sì che ci sia l’assorbimento degli input di ogni singolo musicista. Quella piattaforma di elasticità, per quel che ci riguarda, è proprio la perfetta o quasi perfetta conoscenza di ciascuno di noi. Noi siamo molto consapevoli di quelle che sono le potenzialità di ciascun altro di noi, quindi è il conoscersi così bene che fa sì che a un certo punto si ritorna a una sincronizzazione. Tra le cose che hanno a che fare con il conoscerci bene è anche, appunto, l’aver saputo imparare ad ascoltarsi.
MM: Quando noi di Simplify facciamo i corsi di comunicazione, la prima cosa di cui parliamo è proprio l’ascolto, perché non ce lo insegna mai nessuno.
CG: Vorrei raccontare qualcosa di molto interessante a proposito dell’ascolto, se ne parlava prima, poi non mi sono intromesso. C’è una cosa che imparai con profitto dalla persona con cui lavorammo per la realizzazione dei nostri primi tre dischi.
Tutte le band, quando iniziano a suonare, hanno un po’ di difetti e una delle cose che si può cercare di imparare in fretta, nell’esperienza del gruppo quando si forma, è proprio quella dell’ascolto, e non soltanto per improvvisare. In genere, quando una band suona, la musica che crea è fatta di dinamiche, cioè di volumi alti e bassi. In un concerto di musica classica le dinamiche sono create dal direttore d’orchestra, il quale con i suoi movimenti, che vengono chiaramente interpretati dai musicisti, determina le onde, che è un elemento estremamente affascinante. Se avete assistito a un concerto di musica classica, sicuramente avete notato che il potere che è nelle mani e nella gestualità del direttore d’orchestra è qualcosa di incredibile, perché determina veramente l’impatto emotivo che poi la musica produce in noi quando la ascoltiamo. Il gruppo rock non vive di questa esperienza, perché non ha direttore d’orchestra che lo guida, le dinamiche quindi il gruppo rock se le deve un po’ creare imparando in sala prove. Ecco allora che anche qui la capacità di ascolto fa sì che si maturi l’intelligenza che serve per abbassare il volume del proprio strumento musicale quando è giusto che in quel momento non sia quello predominante. Mentre invece il difetto di tutti i musicisti quando iniziano a suonare e si mettono insieme è che tutti suonano “a mille” sempre e difficilmente c’è l’intelligenza, a meno che non ci sia un buon maestro che te la insegna, di capire che tu in quel momento lì ti devi ridimensionare, ti si sentirà di meno ma tu avrai contribuito a far sì che la musica sia più bella per l’ascoltatore.
EL: Direi che anche questo concetto ci dà un elemento di riflessione interessante, a riguardo del fatto di riuscire a farsi da parte e di porsi dei limiti per il bene comune, con l’obiettivo di produrre qualcosa di gradevole, che sia interessante e che artisticamente abbia un valore. Riportandolo al caso aziendale, come potrebbe essere, ad esempio, l’esecuzione di un progetto, c’è sempre un obiettivo da raggiungere e bisogna sapere quando farsi da parte e incoraggiare gli altri, è necessario il contributo di tutti, è importante mettere in campo un puzzle di competenze che deve essere valorizzato nel suo insieme.
CG: L’esperienza musicale, sia che si parli di performance improvvisativa, sia che si parli dell’esecuzione di brani, è il miglior esempio per trovare i giusti insegnamenti della collaborazione. La musica è veramente l’esito di una sinfonia di intenti, che si crea se e solo se i musicisti collaborano, senza competizione. È molto stupido il concetto della competizione in una dimensione esperienziale di gruppo in ambito musicale.
MM: Non solo in ambito musicale. Hai usato per non so quante volte la parola “intelligenza” e, nell’ambito della complessità, quando si parla della gestione del gruppo si parla di intelligenza collettiva, quindi di un fattore emergente che fuoriesce dall’unione della self-leadership di ciascuno degli elementi. Tant’è che quando noi facciamo il percorso di self-leadership, parliamo di attitudine ad essere co-imprenditori, cioè ad agire con l’obiettivo, con la visione, che di solito è quella che rimane in mano esclusivamente al leader.
Spesso poi ci focalizziamo sulla figura del leader, ma nell’ottica in cui tutti sono leader all’interno di un team, il leader deve fare un passo indietro. Egli deve dare la sensazione che anche lui è un discente, in quel momento sta imparando dagli altri e quindi fare con umiltà, che è simbolo di intelligenza, un passo indietro per lasciare spazio e voce a tutti gli altri componenti del gruppo. Ecco perché abbiamo chiesto se c’è un ruolo fisso e predeterminato, così come ci sono delle competenze distintive, per ciascuno, ma l’attivazione della possibilità di voce data a ciascuno fa sì che poi emerga ciò che è il risultato di un’intelligenza collettiva.
EL: Allacciandomi a quest’ultimo ragionamento, legato al fatto di lasciar voce a tutti, c’è un aspetto fondamentale che bisogna affrontare. Credo sia molto pertinente nell’ambito musicale, lo è sicuramente nell’ambito manageriale. Per garantirsi la possibilità di sperimentare, per andare a adottare quella “spudoratezza” che Cristiano citava all’inizio, per creare nuovi percorsi, bisogna affrontare il tema dell’errore.
Nel momento in cui decido di osare e di uscire dal “compitino” e dall’abitudine, è chiaro che mi espongo al rischio di sbagliare. Che rapporto avete con l’errore? Che cosa succede sul palco nel momento in cui uno commette un errore?
RT: Intanto bisogna distinguere se stiamo eseguendo un brano preparato prima o se siamo in un contesto di improvvisazione. Perché chiaramente nel primo caso, se un musicista commette un errore tecnico, sicuramente gli altri della band se ne accorgono e se è un brano noto, anche il pubblico se ne accorge. Allora chi ha fatto l’errore ci rimane male e questo può essere anche poi controproducente nei momenti successivi dell’esecuzione, perché siamo tutti emotivi.
Invece in ambito improvvisativo, dal momento in cui, come dicevo prima, io ascolto, immagino ed eseguo, nel più breve tempo possibile perché l’improvvisazione sta andando avanti, accade magari che volevo fare una certa cosa ma ne faccio in realtà un’altra per un errore tecnico. Questa cosa qua in realtà la so solo io, quindi è più una questione individuale e, o posso disinteressarmi oppure può essere che da lì nasca un’idea. Nel senso, non è quello che volevo fare, ma in fondo quello che ho fatto è interessante. Anzi, proprio come tecnica compositiva, ad esempio, uno degli espedienti che abbiamo usato negli anni è stato quello di cambiare le accordature delle chitarre. Esiste infatti un’accordatura standard, quella che normalmente tutti usano, ed è in genere la prima che si impara quando si approccia lo strumento. Si creano in questo modo degli automatismi, grazie ai quali, con un po’ di pratica, si riesce a pensare al suono che si intende produrre e le dita si posizionano automaticamente. Cambiando l’accordatura facciamo saltare questi automatismi, e questo da una parte stimola di nuovo, quando scriviamo musica, a pensare, perché non posso disporre le dita sulla chitarra in automatico, ma devo cercare di seguire una strada nuova. Questo fa lavorare il cervello e mette in moto dei meccanismi creativi e cognitivi inediti. Quando però sono dal vivo, può accadere che metta le dita in una certa posizione aspettandomi un certo risultato, che in realtà non avviene. Quindi esce un suono nuovo, inaspettato. Noi questo escamotage nella composizione lo abbiamo spesso usato. In questo caso non parliamo esattamente di un errore, ma è una sorta di deviazione voluta o indotta, rispetto a un utilizzo standard e frutto di abitudini.
CG: A proposito di errore, mi viene in mente il grande Bob Dylan. Se si ascoltano i suoi dischi (e non solo i suoi, ovviamente), spesso si possono trovare “errori”. Questo perché i dischi in quel periodo venivano registrati con i musicisti che suonavano tutti insieme contemporaneamente. Al giorno d’oggi, invece, la maggior parte dei dischi viene registrata con una modalità tale per cui ogni musicista registra la sua parte, che viene successivamente assemblata con quelle degli altri musicisti. Suonare tutti insieme vuole invece dire andare a cercare un esito di musica che sappia di musica suonata. Il fatto che nei dischi si possano ravvisare qua e là dei piccoli errori è proprio dovuto al fatto che quell’errore lì, in realtà, è molto meno importante dell’esito finale della canzone per come la si ascolta. Il fatto di suonare tutti insieme vuol dire che le sessioni di registrazione necessitano di una performance da parte di musicisti in qualche modo superiore alla media. Quando un musicista suona da solo, può provare numerose volte, fino a quando non avrà ottenuto la sua traccia migliore, ma se metti insieme tutto il gruppo, aspettare che tutti insieme si ottenga la perfezione potrebbe voler dire fare decine e decine di prove di registrazione.
Il fatto che spesso si prediliga una registrazione dove qua e là è presente un errorino è proprio perché si è sentita la magia della band nel suo insieme, dalla quale emergono l’anima e l’interpretazione. Questo è per rispondere in parte alla tua domanda, cioè l’errore può anche essere contemplato all’interno di un esito, perché quell’esito è superiore all’errore stesso.
EL: Questo sottintende il fatto che comunque c’è una tolleranza nei confronti dell’errore, in virtù di un bene superiore. Perché vi ho fatto questa domanda? Perché c’è un tema importante che vale anche nel mondo aziendale. Nel momento in cui sono nella situazione in cui devo fare in modo che le persone, tutte, cooperino e collaborino, facciano emergere idee, sperimentino e mettano sul piatto quello che sanno fare nella maniera più spontanea possibile, devo anche accettare un certo margine di errore. Per sviluppare e incoraggiare la creatività e per fare in modo che le persone siano disinvolte e che sviluppino la capacità di osare e che esibiscano quella “spudoratezza” di cui parlavamo prima, è necessario accettare il fatto che qualcuno possa sbagliare e, io leader, devo fare in modo di creare un ambiente in grado di tollerare l’errore.
CG: Assolutamente. Noi MK dal vivo sbagliamo sempre, perché oltretutto la nostra performance è anche molto fisica e non proveniamo da una certa visione culturale della musica, che prevede esibizioni molto performative. Da Madonna in avanti sul palco c’è un gran movimento e c’è un grande dispendio di energia e quella è gente che si allena quotidianamente, per poter fare una performance che sia perfetta ma che al contempo preveda una dimensione quasi sportiva.
Noi non ci alleniamo tutti i giorni fisicamente per ottenere questo risultato di perfezione, il rock non la prevede questa cosa. Il rock è nato con Elvis Presley e prima di tutto era “sesso”, sensualità, non era rigida perfezione. Quindi provenendo da questo ambiente culturale e sapendo molto bene che il nostro pubblico si aspetta da noi un impeto travolgente, è evidente quindi che noi “sbagliamo”, suonando in movimento. Perché il musicista classico non sbaglia? Perché sta seduto ed è rigido nella sua compostezza, per cercare di dare il meglio di sé e non è previsto che balli o che si dimeni sul palco.
Quindi, è ovvio, noi sbagliamo, ma fa parte di un linguaggio comunemente accettato. Però questo errore è sinergico, permette alla performance di acquisire un altro tipo di valore, che è il valore che si aspetta la gente che viene a vederci, cioè il valore dell’energia, del furore, dell’impatto fisico, della potenza emotiva, tutte cose che sono consustanziali al rock.
MM: Questo è un pensiero condiviso tra tutti voi del gruppo. Prima Riccardo diceva, c’è anche l’interpretazione mia, del mio errore. Se stiamo facendo una performance in un concerto, il mio pubblico si aspetta questo brano tenuto in questo determinato modo e io commetto un errore, poi nasce un po’ anche un conflitto interno, per cui se ho sbagliato questo devo restare concentrato per riuscire a proseguire la performance al massimo e non fare altri errori. Avete una tecnica vostra? Cosa fate per riportarvi in focus?
CG: Il 70% degli errori che facciamo è completamente inerente a quello che ho cercato di spiegare prima, mentre il 30% viene lì per lì e sappiamo che è “grave”, però ce ne facciamo una ragione, portiamo avanti lo stesso la performance senza quel cruccio psicologico che hanno ad esempio gli sportivi negli sport individuali. Essendo in un gruppo, se ho sbagliato io o se quella sera non gira bene con l’esperienza io devo comunque non dimenticare mai che ho intorno a me altre quattro persone che probabilmente stanno facendo molto meglio di me in quel momento lì e magari la gente non si sta accorgendo di nulla. Quindi è meglio evitare la deriva psicologica. È chiaro che invece un tennista quando sbaglia fa i conti solo con se stesso. In un gruppo c’è più la possibilità di mediare, tramite il raziocinio.
Ci sono alcuni concerti che io magari vivo malissimo, perché ho fatto una serie di errori o perché ho sentito la band non suonare al meglio. Qui si potrebbe aprire una parentesi lunghissima per capire che cosa vuol dire sentire la band se sta suonando al meglio oppure no, fa parte di tutta una serie di sensazioni che oso definire quasi ineffabili, quasi impalpabili, sono difficili da raccontare. Siamo semplicemente noi che, finito il concerto, andiamo nei camerini e magari uno di noi è incazzato e si lamenta del fatto che non c’era il feeling giusto, poi magari ci pensi un attimo e ti rendi conto che sei uscito tra gli applausi.
MM: Certo, perché si tende sempre alla perfezione e quello che non rientra nel nostro schema di perfezione da noi viene percepito, mentre dagli altri no. Dovrebbe essere il modo per tutti di affrontare la tematica dell’errore, un momento di spunto per nuove opportunità.
CG: Sì sì, assolutamente. Nelle improvvisazioni l’errore è spesso l’inizio di un’ottima piega che può prendere l’improvvisazione stessa ed è connesso con la spudoratezza di cui si parlava prima. Cioè soltanto se osi con la tua personalità, che non è un osare competitivo, ma è un osare nel senso di non aver paura di buttar fuori la tua cosa. Se sei in un ambiente che ti accoglie, ovviamente, un ambiente che ti conosce e che sa interagire con te. Allora in quel caso lì, l’esperienza improvvisativa non può prevedere il timore di qualcuno. Nessuno ha paura, noi diciamo, “di buttare le dita sul manico”, che detta così è un po’ dozzinale, ma che è perfettamente aderente a quanto accade. Si vanno a cercare le note, quando tu cerchi le note, nonostante quel tentativo di sincronizzazione di cui parlava Riccardo, la mente che pensa, l’immaginazione che produce, le dita che ottengono, non è sempre possibile. Però bisogna avere il coraggio di buttarsi.