A margine del webinar che si è tenuto il 24 giugno 2021, tappa del percorso “Non è difficile, è complesso!”, abbiamo posto al prof. Alberto Felice De Toni alcune domande le cui risposte ci sono utili per comprendere quali legami abbia la Teoria della Complessità con il management.
Enrico Laurenti: Abbiamo parlato di connessione tra elementi di un sistema come una delle sorgenti della complessità. Pensando al sistema azienda, con che cosa possiamo identificare il concetto di “elemento”? Le persone, i prodotti, i clienti, le sedi? In altre parole, cosa genera la complessità in azienda?
Alberto Felice De Toni: La complessità nelle imprese esiste perché sono ecosistemi di persone, culture, linguaggi, approcci, metodologie, sedi, prodotti, servizi, mercati, tecnologie, clienti, fornitori ecc. tutti interconnessi e operanti in contesti competitivi sempre più esposti alla globalizzazione e alla digitalizzazione, con tassi di cambiamento sempre più elevati.
Le dimensioni della complessità in ambito organizzativo sono quattro: 1. Varietà (o diversità): il numero, la diversità e l’eterogeneità degli elementi costituenti il sistema e l’ambiente con cui esso si relaziona. 2. Variabilità (o dinamicità): livello di variabilità e tasso di cambiamento della co-evoluzione fra sistema e ambiente. 3. Interdipendenza: il numero di interazioni e di connessioni fra gli elementi/sottosistemi del sistema e l’ambiente con cui essi si relazionano. 4. Incertezza (o indeterminazione): grado di imprevedibilità ed ambiguità del sistema dovuto anche alla presenza di relazioni non lineari.
Tutti gli elementi sopra citati sono nodi di una rete caratterizzata da varietà, variabilità, interdipendenza e incertezza/indeterminazione sempre crescenti. La rappresentazione classica di un sistema complesso è proprio una rete di nodi connessi tra loro da relazioni anche non lineari.
Noi, le nostre organizzazioni, le nostre imprese, le nostre società siamo immersi una complessità che cresce sempre. A volte generata dalle stesse aziende quando introducono un’innovazione per aumentare le complessità del mercato, nel tentativo di mettere in difficoltà i propri concorrenti. È una complessità amica. Altre volte invece è subita: è una complessità nemica. Esiste quindi un lato chiaro della complessità, quella generata per aumentare il proprio grado di sopravvivenza, ed esiste il lato oscuro della complessità, quella subita, alla quale comunque è necessario adattarsi per sopravvivere. Quello che comunque è evidente è che nel mondo la complessità aumenta sempre, figlia della continua competizione per la sopravvivenza.
EL: Un saggio di cui è coautore porta il titolo emblematico “Il dilemma della complessità” (di A. F. De Toni e G. De Zan, Marsilio, 2015). Ci può riassumere brevemente quale sarebbe il dilemma cui fa riferimento e, pensando alla realtà aziendale, che direzione bisogna prendere per risolverlo?
AFDT: Karl Popper, filosofo ed epistemologo austriaco affermava che “La consapevolezza non inizia con la cognizione o con la raccolta di dati o fatti, ma con i dilemmi”. E il dilemma della complessità a cui facciamo riferimento nel libro citato è il seguente: all’aumentare della complessità esterna dei mercati sempre più competitivi, la complessità interna delle imprese va aumentata o va ridotta? Come devono rispondere le organizzazioni? Aumentando la complessità interna, come indicato da Ashby nel 1958 con la sua famosa “legge della varietà necessaria”, o selezionando una porzione minore di complessità esterna a cui far corrispondere una complessità interna minore come indicato da Luhmann nel 1984?
La “legge della varietà necessaria”, formulata nel 1958 dal psichiatra britannico e pioniere della cibernetica, William Ross Ashby rappresenta uno strumento chiave per il controllo dei sistemi: “per controllare un sistema di una certa varietà è necessario un sistema di controllo avente una necessaria varietà”. La legge di Ashby applicata alle imprese comporta che all’aumentare della complessità ambientale – espressa in termini di varietà esterna, ad esempio di gamma di prodotti richiesta – deve crescere il livello di varietà interna, ad esempio espressa in termini di varietà di gamma di prodotti offerta. L’aumento di complessità interna è quindi la risposta adattativa all’aumento della complessità esterna.
Secondo il sociologo e filosofo tedesco Niklas Luhmann un sistema è delimitato da un confine tra sé stesso e il proprio ambiente. L’interno del sistema è una zona di complessità ridotta, mentre l’ambiente è caratterizzato da una complessità infinita. Luhmann rigetta quindi il principio della varietà necessaria di Ashby. Se l’ambiente è sempre più complesso del sistema, è impossibile per il sistema dotarsi di una complessità pari a quella dell’ambiente. Luhmann sostiene che la base per l’esistenza dei sistemi sociali è la “riduzione” della complessità esterna. Se allora il sistema non può elevarsi al pari del suo ambiente, cosa può fare? Risposta: selezionare una porzione limitata di complessità esterna, il che è di fatto una “riduzione” della complessità. A questa porzione di complessità esterna risponde un sistema “più semplice”, con un grado di libertà maggiore e quindi capace di una risposta più efficace.
Come affrontare quindi la crescente complessità esterna? Aumentando la complessità interna o selezionando una quota minore di complessità esterna? Chi ha ragione? Ashby o Luhmann? Hanno ragione entrambi! E per spiegarlo faremo riferimento alla curva della complessità, rappresentata nella figura sottostante, dove in ordinata ci sono le prestazioni complessive e in ascissa la complessità interna.
Fino ad un certo punto per far fronte alla complessità esterna (diversi paesi, mercati, consumatori ecc.) l’aumento di complessità interna (diversi prodotti, tecnologie, processi ecc.) determina un aumento di prestazioni. Ma oltre un certo limite si innesca la cosiddetta “spirale della complessità”. Spesso le imprese cercano di realizzare nella stessa unità operativa prodotti diversi, per mercati diversi, con tecnologie diverse, nella convinzione di ottenere economie di scala. In realtà queste dimensioni sono tra loro in conflitto e creano problemi spesso ingestibili. Per tentare di risolverli si assume più personale in una spirale di aumento dei costi e della complessità che va fermata.
Il concetto di focalizzazione espresso nel 1974 da Wickham Skinner, docente alla Harvard Business School, si basa sull’assunto che una unità operativa focalizzata ottiene prestazioni superiori poiché si concentra su un mix limitato di prodotti, clienti e tecnologie. La concentrazione su una sola area consente prestazioni migliori di efficienza ed efficacia.
Quando la complessità interna raggiunge valori tropo elevati il livello di prestazioni diminuisce. Diviene allora opportuno selezionare porzioni minori di complessità esterna, ciascuna affrontata da sotto unità focalizzate, come fece ad esempio la Electrolux-Zanussi quando organizzò la produzione non più su un solo stabilimento, bensì su più unità produttive (lavatrici, frigoriferi ecc.). La suddivisione in sotto unità focalizzate affronta in modo “modulare” l’aumento della complessità esterna. Infatti più sotto unità selezionano parti minori di complessità esterna e possono rimanere a livelli accettabili di complessità interna; ovvero aumenta la complessità totale (Ashby) e si riduce la complessità locale (Luhmann). La modularità è una soluzione strutturale tipica del dilemma della complessità.
Ashby e Luhmann quindi hanno ragione entrambi, ma in “domini” diversi della curva della complessità. Le aziende dovrebbero seguire la legge di Ashby prima di raggiungere il punto di massimo e seguire i consigli di Luhmann una volta oltrepassato questo limite.
EL: Pensando al concetto di autorganizzazione in azienda, di primo acchito sembrerebbe un concetto “pericoloso” per la gerarchia. In realtà lei ha più volte spiegato che favorire e indurre l’autorganizzazione è una cosa ben diversa da uno stile manageriale di tipo “laissez fare”. Ci può spiegare in cosa consiste questa differenza e perché l’autorganizzazione è vincente in un ambito complesso?
AFDT: Auto-organizzazione non significa anarchia: anche nei sistemi fisici e biologici, i sistemi auto-organizzati costruiscono il loro ordine emergente sulla base di micro-regole. Auto-organizzazione non significa laissez-faire: le componenti non sono completamente libere, ma sono soggette a vincoli, in particolare le retroazioni che si vengono a creare nelle complesse reti di relazioni tra gli elementi del sistema. Auto-organizzazione non significa perdita di controllo: se l’organizzazione condivide realmente sistema di valori e visione, il controllo è demandato in modo diffuso e più efficace alla stessa periferia, mente il centro si occupa dello sviluppo. Auto-organizzazione non significa un semplice “fai da te”; l’auto-organizzazione è una logica diversa di organizzazione, che si può concretizzare solo in presenza di ben determinate condizioni, la cui ricerca e creazione è compito dei leader.
Infatti l’auto-organizzazione per emergere ha bisogno di energia. Ed è il capo che la deve fornire.
Il premio nobel per la fisica Philip W. Anderson sostiene che “L’auto-organizzazione non ha luogo se non vi è un flusso continuo di energia all’interno del sistema”. Il capo – se vuole promuovere l’auto-organizzazione – deve cambiare il proprio ruolo, passando da un ruolo riduzionistico ad un ruolo complesso, da un ruolo di “pianificazione e controllo” ad uno di “creazione e presidio del contesto”. Un contesto dove le persone diventano nel tempo intra-imprenditori, dove la vera motivazione è l’auto-motivazione, frutto di una visione condivisa, ottenuta con l’esempio del leader che incoraggia e sostiene i componenti della sua squadra fornendo loro l’energia del cambiamento. Il capo deve evolvere da un ruolo di “controllore” ad uno di “costruttore”. Solo allora l’organizzazione può diventare “una squadra di squadre”.
L’essenza dell’empowerment è il management dei sistemi “a molte menti”. Quelli tradizionali invece sono sistemi “a poche menti”: quelle dei vertici. Siamo abituati ad una leadership che controlla. Ma questo riduce il leader ad un mero controllore. E come ci ricorda Mario Andretti, pilota storico della Ferrari: “Se tutto è sotto controllo, stai andando troppo piano”.
Per gestire la complessità crescente è opportuno puntare sulla partecipazione e sull’assunzione di responsabilità da parte di tutti in una logica di intra-imprenditorialità. Serve intelligenza distribuita, inter-connessa, auto-motivata e auto-attivata. Al centro non si risolve. Il futuro è nella periferia.
EL: È possibile la coesistenza tra gerarchia e autorganizzazione?
AFDT: Gli studi sul ciclo di vita delle organizzazioni, uno per tutti Greiner (1972), indicano che nello sviluppo delle organizzazioni il pendolo continua a oscillare tra accentramento e delega decisionale, tra aumento delle regole e sburocratizzazione, tra controllo accentrato e controlli decentrati. Mentre l’auto-organizzazione è una caratteristica peculiare della fase iniziale, nelle fasi successive essa viene meno, anche se a intervalli è necessario reintrodurre elementi di auto-organizzazione. In tal modo, le grandi organizzazioni cercano di guarire dalle malattie tipiche della gerarchia e della centralizzazione e acquisire i livelli di flessibilità necessari.
Gerarchia e auto-organizzazione sembrano quindi convivere secondo due dimensioni:
- quella del tempo, ovvero gerarchia e auto-organizzazione si alternano – come indica Greiner – con l’auto-organizzazione che diventa chiave nei momenti di cambiamento e la gerarchia che riemerge nei periodi di stabilità;
- quello dello spazio, ovvero dentro l’organizzazione coesistono più unità dove – per far fronte a situazioni di maggiore complessità – prevalgono capability e pratiche tipiche dell’auto-organizzazione, mentre in altre unità prevalgono modelli gerarchici tradizionali.
Modelli organizzativi gerarchici, stili di leadership di “controllo” e comportamenti subordinati funzionano bene in contesti a bassa complessità e con persone che presentano scarsa attitudine intra-imprenditoriale; viceversa
modelli di auto-organizzazione, stili di leadership di “costruzione e presidio del contesto” e comportamenti da self-leader funzionano bene in contesti ad alta complessità e con persone che presentano eleva attitudine intra-imprenditoriale.
I due modelli quindi non sono alternativi nel tempo e nello spazio dell’organizzazione, ma coesistono. E se l’auto-organizzazione non prevale in modo diffuso nello spazio e in modo stabile nel tempo, il motivo è perché richiede particolari attitudini e implica cambiamenti profondi nei comportamenti di tutte le persone dell’organizzazione, fino a quelle più periferiche. In altre parole per operare in ambienti complessi sono necessarie persone dotate di spirito intra-imprenditoriale e capaci di self-leadership.
EL: Discutendo di complessità, soprattutto con persone che hanno un background di tipo tecnico-scientifico, emerge spesso una prima reazione di disagio, perché la complessità sembra mettere fortemente in discussione alcuni capisaldi del ragionamento razionale e deterministico, quali il ricorso a metodi quantitativi e a decisioni basate sui dati, la fiducia nella costruzione di modelli predittivi efficaci, la possibilità di comprendere a fondo i fenomeni e di potere quindi avere sempre la risposta giusta ad ogni problema. È realmente così?
AFDT: Le scienze della complessità cercano di comprendere a fondo i fenomeni complessi per costruire risposte efficaci. Lo schema classico manageriale “analisi-pianificazione-implementazione” funziona beni in contesti complicati, ma non in contesti complessi. I sistemi complessi sono sistemi dinamici, che evolvono nel tempo secondo modelli che emergono durante il fenomeno stesso, modelli che non sono conosciuti ex-ante e sono ricostruibili solo ex post.
Lo schema più adatto per governare i sistemi complessi è “azione-apprendimento-adattamento. L’azione di perturbazione consente di riconoscere gli schemi di comportamento emergenti del fenomeno e di riadattare la strategia di intervento.
Se l’apprendimento dovuto all’azione è l’attività chiave per governare i sistemi complessi, è comprensibile che si nutrano grandi attese dallo sviluppo delle applicazioni di “machine learning” il quale ha l’obiettivo di riconoscere eventuali modelli sottesi ai dati. I dati grezzi possono essere trasformati in conoscenza strutturata. Esempi di conoscenza strutturata sono: modelli comportamentali dei clienti, previsioni di fatturato, evoluzione dei costi di acquisto, trend finanziari ecc. Ci si avvale di applicazioni di Machine Learning, ma anche di Data Science, Intelligenza Artificiale, Big Data Mining, Advanced Analytics, Reti Neurali ecc.
Molte volte le relazioni più interessanti tra i dati che formano database sono nascoste. Il paradosso è che proprio queste relazioni rappresentano, spesso, la vera ricchezza informativa, il tesoro nascosto, il patrimonio da portare alla luce. È per tale motivo che, oltre che parlare di “Big Data”, si parla di “Deep Data”, o meglio, “Deep Links”: in molti database le informazioni sono tante, ma sono soprattutto “profonde”, in quanto celano una ricchezza relazionale che non sempre si rivela alla superficie dei dati grezzi.
Il concetto chiave è che l’essenza della complessità e la sua ricchezza stanno nelle relazioni. Scoprire nuove relazioni è in generale più importante che acquisire nuovi dati. Il tesoro è lì, sepolto da montagne di dati, e ha la forma di una connessione nuova, di un link inedito, di una correlazione di cui nessun altro prima si era accorto.
EL: Spiegando l’approccio alla gestione dei sistemi complessi ha usato l’analogia dell’aliante. Per andare da Venezia a Roma con un aereo a motore imposto preventivamente la rotta e arriverò a destinazione. Diversamente, avessi a disposizione un aliante, dovrei affidarmi alle correnti e alla mia capacità di sfruttarle adeguatamente, ma non è detto che riesca ad arrivare proprio a Roma. Già Henry Mintzberg sosteneva che la strategia realizzata è un mix tra strategia intenzionale e strategia emergente. Dobbiamo quindi anche accantonare il concetto di obiettivo? O dobbiamo solo rivederlo?
AFDT: Gli obiettivi ci sono e devono rimanere. Poi possiamo raggiungerli o meno.
In generale non è sufficiente una strategia intenzionale, dobbiamo essere pronti a “cogliere l’attimo”, secondo una strategia emergente, come sostiene il prof. Henry Mintzberg.
Lo aveva già capito Sun Tzu – generale vissuto in Cina fra il VI e il V secolo a.C. – a cui è attribuito uno dei più importanti trattati di strategia militare dell’antichità: L’arte della guerra. È necessario partire dalla situazione, non da una situazione modellizzata, ma dalla situazione in cui ci si muove e all’interno della quale si tenta di scoprire dove risiede il suo potenziale e come sfruttarlo. Quindi è opportuno valutare il contesto e sfruttarne il potenziale secondo un approccio che potremmo definire Evaluation & Exploitation, in contrapposizione a quello tradizionale Design & Implementation. Comprendere a fondo il reale consente di anticiparne l’evoluzione e trarne vantaggio. Il primo capitolo dell’Arte della guerra si intitola ji, che può essere tradotto con calcolo, valutazione. Si inizia dalla valutazione del potenziale della situazione e solo a questo punto è possibile sfruttarlo a proprio favore.
I due approcci – Design & Implementation e Evaluation & Exploitation – si differenziano per quanto riguarda la definizione del modello. Nel primo caso il modello è definito ex ante, nel secondo caso è definito in itinere, schematizzabile ex-post, come la rotta dell’aliante.
Valutare il contesto per sfruttarne il potenziale. Comprendere a fondo il reale per capirne l’evoluzione e trarne vantaggio. In questa prospettiva nell’approccio Design & Implementation la strategia è “guidata” dal risultato finale atteso (il “To Be State” desiderato in relazione al “As Is State” attuale), mentre nell’approccio Evaluation & Exploitation la strategia è “guidata” dalle condizioni di partenza del sistema. Il pilota dell’aliante docet.
Alberto Felice De Toni
Nato nel 1955. Ha conseguito la laurea in Ingegneria Chimica nel 1980 e il dottorato di ricerca in Scienza dell’Innovazione Industriale nel 1986 presso l’Università di Padova. Dal 1980 al 1984 ha lavorato presso gruppi industriali tra cui l’ENI Ricerche a San Donato Milanese. È professore ordinario di Gestione dei Sistemi Complessi presso l’Università di Udine. È Presidente della Fondazione CRUI – Conferenza dei Rettori delle Università Italiane e Direttore Scientifico del CUOA Business School di Altavilla Vicentina. È stato Rettore dell’Università di Udine e Presidente dell’AIIG – Associazione Italiana di Ingegneria Gestionale.